Intervista a Francesca La Mantia, autrice di “Una divisa per Nino” e regista del docu-film “La Memoria che resta.
Francesca La Mantia, autrice di “Una divisa per Nino”, ci racconti un po’ di lei e di come si è avvicinata alla scrittura.
Io credo che sia nata dentro di me qualcosa che è simile a un’urgenza di raccontare delle storie che senza la mia penna non sarebbero state realizzate. Non mi definisco scrittrice o regista, ma cantastorie: ci sono storie che se non vanno raccontate rischiano di andar perdute, decadendo nell’oblio. Ho iniziato a scrivere per un senso di dovere morale, etico, socio-culturale.
In occasione della realizzazione del docu-film “La memoria che resta”, ho registrato un documentario molto vasto:ho raccolto moltissime storie che non volevo andassero perdute, così ho deciso di inserirle in modo fantasioso nel libro, in cui ci sono anche personaggi realmente esistiti. I destinatari del libro sono bambini: se proviamo a dare un’impronta civica alla formazione, anche gli adulti, indirettamente, ne saranno coinvolti. Mentre i bambini recepiscono subito il messaggio – ad esempio, hanno ben chiara la differenza buono-cattivo, giusto-sbagliato, per loro è qualcosa di ovvio – per gli adulti il mondo è pieno di sfumature e sovrastrutture da cui i più piccoli sono liberi.
“Una divisa per Nino” nasce per raccontare il fascismo ai bambini, ottenendo un grande successo. Ci racconta i punti salienti del libro?
Nino è un bambino sognatore, imbranato, paranoico, che punta a diventare un fascista perfetto, a essere il primo della classe, a vivere all’interno del binario “vincere-obbedire”, portare avanti i valori del fascismo; si prepara a diventare un soldato come il padre. Accade però che si i innamora di una bambina che non corrisponde, così, per far colpo su di lei, decide che da grande avrebbe fatto il duce. La vita lo porta a inciampare nei sentimenti e nella vita reale: si rompe la gamba e questa diventa l’occasione grazie a cui un vicino di casa insegna a Nino i valori di libertà, tolleranza e pace.
Si tratta di un tema complesso e difficile da trasmettere a una fascia d’età così giovane. L’intento pedagogico rende la stesura del libro un’operazione ancora più delicata e impegnativa. Quali sono state le più grandi sfide e le più grandi soddisfazioni ottenute?
Certamente non mi aspettavo che il mio libro restasse per settimane primo/secondo in classifica su Amazon per la categoria narrativa storica per ragazzi. Il libro è stato scritto anche per delle persone che nella storia hanno alzato la testa, piuttosto che girarsi dall’altro lato. Tratta tematiche come la guerra in Etiopia, cercando di sfamare il mito “italiano brava gente”. La più grande sfida e soddisfazione al tempo stesso consiste nell’aver reso questi valori tramite l’immaginazione fervida dei bambini, che si sono rivisti in Nino: il protagonista che, alla fine, sceglie l’amicizia. Faccio diverse dirette, ricevo telefonate in cui mi vengono chieste lezioni online dopo aver letto il libro. I bambini fanno sempre tante domande e le loro osservazioni non hanno sovrastrutture. Penso che la scuola abbia il dovere di formare un pensiero critico e non solo attenersi ai programmi ministeriali; questo compito va esteso e coadiuvato da famiglia e pedagogi.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Uscirà a marzo un libro che parlerà della mafia ai bambini. Si tratterà della Squadra Mobile di Palermo degli anni ‘80 che, hanno permesso, grazie al loro duro lavoro, di poter fare il Maxiprocesso. Bisogna ricordare che questi giovani tra i 20 e i 30 anni sono morti per questo, eppure la loro memoria non è onorata a sufficienza. A vivere con loro sarà il figlio di un ladro che cambierà la sua idea di mafia: inizialmente la considera buona in quanto strumento che agevola la vita delle persone di fronte all’inefficienza dello stato; arriverà a comprendere che la mafia non permette di vivere liberamente perché i cosidetti “favori” sono ricatti, impedimenti alla libertà individuale e collettiva. Il libro è un romanzo di formazione spiegato attraverso la parabola di una partita di calcio.
Parliamo della sua terra d’origine, la Sicilia. Cosa pensa Francesca La Mantia di prospettive e sviluppi futuri possibili in ambito sociale, politico ed economico per l’isola? Nonostante i problemi che affliggono la regione, cosa potrebbe dare – secondo lei – un forte impulso alla ripartenza della Sicilia?
Quest’anno è l’anno in cui sono tornata in Sicilia – da 8 anni vivo a Milano. Ho visto un cambiamento in Sicilia, forse dovuto alla presa di coscienza che ci stavamo troppo svuotando non solo demograficamente ma anche di valori. La Sicilia ha riscoperto, tramite turismo, valorizzazione della tradizione e della cultura, una speranza di rinascita. Per farlo è necessario abbandonare i vecchi schemi clientelari, vecchi sistemi di favori che vedo ancora radicati nella mentalità.
Abbiamo bisogno di meritocrazia che si basi anche sulla valorizzazione non solo economica degli artisti. E’ fondamentale che chi lavora come artista deve essere pagato e valorizzato. “Cu nesci arrinesci”, dice il famoso detto; eppure, non solo chi va fuori, ma anche anche chi resta può riuscire a essere valorizzato. Dobbiamo riconoscere i nostri valori, riscoprirci, cambiare una mentalità che è radicata in noi.
Grazie a Francesca La Mantia per averci dato l’occasione di conoscerci meglio!